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Saperi e lavoro, la nuova Università

 

 

Marcello Buratti

Genetista Università di Firenze

 

Dico solo due parole perché molte delle cose che volevo dire io le ha già dette Fabri con il quale complessivamente concordo.

Io vorrei affrontare questo argomento da due punti di vista, uno dalla sensazione che io ho e penso tutti noi abbiamo, sullo spirito del tempo in questo Paese, cioè sul posto dato alla scienza nell’immaginario collettivo degli italiani. Io faccio dalle 80 alle 100 conferenze e dibattiti all’anno negli ambienti più disparati, che corrispondono circa alle mie ore di lezione, frequento quindi ambienti in gran parte della scuola ma ho contatti con altri settori anche perché ho da fare quella cosa che si chiama biotecnologia. L’immagine della scienza che esce dalla gente è un’immagine che equipara essenzialmente la scienza, gli scienziati, a persone essenzialmente onnipotenti, cioè lo scienziato potrebbe fare cose meravigliose oppure potrebbe farne di pericolosissime, è un tipo di visione quasi mistica, nel senso che siamo equiparati a dei maghi, non è molto diverso dal tempo degli alchimisti, ovvero la gente ci considera o dei maghi buoni che salveranno il mondo perché l’unica salvezza può venire dalla scienza, o come maghi cattivi che stanno nei loro laboratori e combinano chissà che cosa: questo è il senso di immaginario che percepisco dalla gente. Con tutto ciò, questa stessa gente però chiede informazione, proprio perché ha questa visione degli scienziati che parlano con un linguaggio criptico e non si capisce cosa dicono perché probabilmente non vogliono dire le cose, proprio per questo la gente invece è contenta se si parla in un modo chiaro, didattico, con delle parole comprensibili spiegando le cose in modo normale, così cambia immediatamente l’immagine. L’immaginario collettivo comunque è quello, tant’è vero che gli scienziati non sono mai stati considerati degli intellettuali, perché intellettuale è l’umanista, l’uomo di scienza è un uomo di scienza, è questo mago con gli alambicchi.

Gli appelli per la salvezza dell’Italia, gli appelli per qualsiasi cosa che sono firmati da degli intellettuali comprendono due premi Nobel, generalmente, quindi sono, sì, intellettuali, ma agli altri scienziati non viene nemmeno chiesto di firmare appelli perché non sono considerati intellettuali, ciò significa che in questo Paese pensare è pensare in discipline umanistiche, mentre lo scienziato o è un mago o è un tecnologo. E su questo sono i tecnologi stessi che accreditano questa immagine, perché avete visto negli anni passati i biotecnologi, che sono tecnologi, che dicono “La scienza dice” non dicono “La tecnologia dice”, la scienza è per mangiare il mais transgenico… Allora questa immagine, che è quella che viene contrapposta all’immagine della magia, è l’immagine della tecnologia, la vera scienza, quella che serve davvero, è la tecnologia, non c’è scienza come operazione intellettuale che serva, ma c’è scienza come applicazione ultima dell’ultimo pezzettino, ultimo livello di applicazione, praticamente quella sul mercato, quella è la scienza che serve.

Perché questo fatto? Perché da un lato l’intelletto non è scienza? Gli scienziati non sono intellettuali? E dall’altro lato invece la scienza viene indicata nella tecnologia di basso livello.

Il nostro Paese è nel G8 quindi è uno degli otto Paesi più ricchi del mondo, ma sta scegliendo (e, badate bene, è peggiorata nettamente questa situazione) di competere non con i G7, ma con gli altri.

Prendiamo alcuni dati: il 99% e più delle nostre imprese  ha meno di cinquanta addetti e svolge solo il 3,2% della ricerca e sviluppo per ovvie ragioni di dimensioni, basso livello culturale, assenza di collegamenti e di politiche specifiche. Di conseguenza solo il 5-10%  dei nostri prodotti è ad alta intensità di ricerca, e le imprese ad alta densità di ricerca nel periodo 1995-2000, mentre in Italia sono rimaste sotto l'8% diminuendo leggermente di numero, in Gran Bretagna e in Francia sono salite dal 20 al 25% negli Stati Uniti dal 26% al 30%. Tutto ciò si riflette sulla richiesta italiana di  brevetti, indicatore credo molto importante perché i brevetti permettono a chi li possiede di controllare sempre di più il mercato, determinando l’aumento dei costi dei brevetti derivati. Questo fatto è particolarmente chiaro nell’area della postgenomica che io conosco bene come documenterò in seguito. Ebbene, le richieste di brevetto italiane all'ufficio europeo brevetti sono 4,8% per milione di abitanti, le richieste inglesi sono il 18,9%, le richieste finlandesi sono il 26%, la media europea è 17,9%. Questo fatto determina, secondo uno studio recente della Unione europea un nostro distacco forse irreparabile dal gruppo di testa per i settori delle tecnologie avanzate. Il fenomeno non è dovuto soltanto  alla frammentazione ed alla piccola dimensione delle imprese. Infatti cosa succede nell'1% delle imprese che hanno molti addetti e che effettivamente facevano ricerca per davvero fino a poco tempo fa? FIAT, Pirelli, e le poche altre grandi imprese italiane che restano stanno andando verso la finanziarizzazione, verso la cessione delle attività produttive, verso lo spostamento su settori virtuali e spesso essenzialmente finanziari della loro attività. Non so se qua ci sono ricercatori di FIAT, ma non credo che siano particolarmente contenti di quello che gli sta succedendo negli ultimi anni perché da molto tempo i loro brevetti non sono utilizzati da FIAT ma venduti ad altre imprese, quando sono validi spesso per pochi soldi. Questo processo lo ha iniziato Romiti vendendo ad esempio un nuovo sistema di iniezione che ora viene utilizzato da gran parte delle imprese automobilistiche meno che da quella i cui ricercatori, spesso di grande livello, lo hanno inventato. Lo stesso Centro Ricerche Fiat è infatti da tempo in procinto di chiudere. Persino la moda e i settori produttivi “di lusso” sono in gran parte in crisi perché, a detta degli analisti, al marchio di fama molto spesso non corrisponde la qualità e la novità del prodotto. Questo vuol dire che il tessuto produttivo italiano non cerca più di competere sul piano della innovazione ma punta verso la manovra finanziaria, la pubblicità per la commercializzazione e cioè verso un tipo di economia che certo non ha niente a che fare con quello che propone il sindacato e non è nemmeno quello che  dice di voler perseguire il governo del Polo.

Tutto questo si riflette negli atti di questo governo, due non sono tanto diversi come retropensiero dai governi precedenti, però sono diversi perché ora siamo arrivati a maturazione di questa situazione. La vittoria di D’Amato in confindustria è stata il segnale chiarissimo dell’arrivo di Berlusconi, cioè Berlusconi è il leader di queste mutazioni in peggio che sta avendo il Paese dal punto di vista della struttura economica, e negli atti di governo questo risulta, infatti il piano nazionale di ricerca della Ministra Moratti è interessante da leggere, perché in esso è scritto che il nostro competitore massimo, il vero competitore dell’economia italiana è la Cina, non i G7, ma la Cina. E finché questo me lo dice il piccolo imprenditore che non ce la fa a fare ricerca, a fare innovazione va bene, ma se questo viene affermato nel Piano Nazionale di Ricerca (PNR) significa che si punta a formare della gente adatta a competere con la Cina (io conosco bene la Cina perché abbiamo rapporti di collaborazione da tempo, e sono bravissimi, stanno andando avanti velocissimi, non sul piano dell’innovazione, ma sul piano del trasferimento dell’innovazione già acquisita, anziché impegnare energia dei lavoratori per la ricerca e loro fanno anche bene).

Altro fatto estremamente preoccupante che si evince dal PNR Moratti è che il Ministro o chi ha steso il Piano non sa cosa significa fare ricerca e sviluppo innovativi e cioè puntare a nuovi brevetti per prodotti e cicli di produzione rinnovati. Questo risulta chiaro da un errore marchiano che riguarda fondi strutturali della Unione Europea. Nel Piano infatti c’è un punto in cui si considerano i fondi strutturali come fonte di fondi per la ricerca. Tutti sanno che invece i fondi strutturali, sulla base dei DOCUP  non prevedono ricerca ma trasferimento di ricerca, utilizzazione della ricerca già fatta, cioè di innovazione già prodotta e brevettata che viene introdotta nei processi produttivi e serve ad incentivare in questo modo direttamente lo sviluppo. Noi potremo quindi utilizzare i fondi strutturali (solo peraltro fino al 2006) non per fare ricerca ma per trasferire, probabilmente a caro prezzo, la innovazione prodotta da altri nel nostro sistema economico. Allora si capisce perché la ricerca di base non viene finanziata nel PNR e si capisce anche cosa sono quelli che vengono chiamati nel Piano il secondo, terzo e quarto asse di ricerca.

Allora dire la Cina, dire fondi strutturali, chiarisce benissimo in quale direzione ci stiamo muovendo, se si va poi a vedere la ripartizione della spesa per la ricerca del Piano Nazionale per la Ricerca, la ricerca di base è quasi scomparsa, quella che loro chiamano la ricerca di secondo livello non è ricerca ma solo ristrutturazione dei cicli produttivi delle singole aziende, innovazione che può anche servire solo per risparmiare manodopera, ma non innovazione di prodotto, sono applicazioni di sistemi di produzione diversi che fanno risparmiare in qualche modo il proprietario dell’azienda, niente di male naturalmente, però questo è l’indirizzo di questo governo a cui fa da contraltare -anche questo bisogna dirlo- una università e una ricerca che dire che sono imbelli è dire poco.

Nella ricerca, il CNR è in via di dismissione, l’ultimo bando è stato fatto nel 2001, tutta la gente ha concorso perché siamo tutti affamati di soldi per fare le nostre ricerche, ma i soldi sono scomparsi: questo era il piano annuale di finanziamento del CNR, gli organi propri del CNR sono al 60% del loro finanziamento di base che già non era sufficiente. Nell’art. 29 della finanziaria 2002 c’è una novità “carina”, il capitolo della cosiddetta esternalizzazione, che vuol dire dare via, cioè la ricerca viene considerata cosa da regalare -se la vogliono- alle imprese, per cui si possono esternalizzare le funzioni dell’università (corrisponde alla cartolarizzazione per i monumenti) e per funzioni si intendono la formazione e la ricerca; pare che ci sia già un decreto legge attuativo pronto che va in questa direzione. C’è fra l’altro una bozza di legge di riforma dell’università che circola, probabilmente per i sondaggi di opinione, in cui si dice che i direttori saranno designati dal ministro dell’economia, perché così finalmente queste università diventino un po’ produttive! Perché, prima non stavamo producendo niente?

Ecco, a fronte di tutto questo i nostri colleghi, noi, siamo estremamente colpevoli perché primo, non ci informiamo di queste cose, e, chiaramente, non veniamo informati da nessuno, io so qualcosa perché giro continuamente in rete e trovo notizie andando a frugare nel sito del MIUR, però pochissimi lo fanno. Quello che noi abbiamo fatto a livello nazionale, salvo eccezioni, è stato invece di badare alla riforma dell’università facendo in modo che le nostre singole discipline avessero ciascuna il suo corsettino di laurea. Fino ad ora c’era un corso di laurea in Scienze biologiche e un corso di Scienze naturali e biotecnologie, oggi ci sono 41 sedi italiane che fanno un corso di laurea in Biotecnologie, ma questi corsi di laurea non sono in biotecnologie in generale, sono 21 diverse lauree a livello nazionale in biotecnologie. Informatica ha 36 lauree diverse, queste sono le lauree triennali, Fisica non ne ha tantissime ma comunque ne ha 17-18, perché anche Fisica cerca, poveretta, di aggiornarsi. Questo vuol dire che i professori non hanno ancora capito che non siamo nel 1961 e che tutto è cambiato: il fatto di avere tante lauree non comporta che ci saranno più posti: il professore universitario ha ancora nel capo l’idea che se la sua materia ha più insegnamenti, lui avrà più potere e più posti, mentre dovrà soltanto lavorare di più e insegnare materie che non sa.

Allora, che cosa esce da questo quadro? Ci stiamo difendendo dove si può naturalmente, ma ci sono lauree triennali che puntano all’insegnamento di un piccolissimo settore dello scibile, applicativo, con un insegnamento di base che è quanto meno dimezzato, i corsi di base vanno sulle 40 ore, quando erano 80-90 ore; io insegno Genetica e sto scervellandomi su come farò per far capire le cose fondamentali. Perché anche noi universitari abbiamo fatto la stessa cosa degli altri, cioè abbiamo individuato in un pezzettino di applicazione lo sbocco occupazionale delle persone, e questo è un errore gravissimo perché sul mercato del lavoro i neolaureati sono competitivi se possono accedere a più lavori, perché possono scegliere, e per fare questo bisogna che abbiano il cervello un po’ elastico. Quest’anno ho tenuto una lezione in un corso per biotecnologie, e avevo tutti i ragazzi davanti, e non c’è stata nessuna domanda durante l’intervento; dopo la lezione si sono affollati intorno alla cattedra chiedendomi: “Professore, ma noi il lavoro poi lo troviamo?” e io ho detto: “No, perché in Italia gli addetti a imprese biotecnologiche, che siano laureati e che sappiano fare quel mestiere, non sono più di trecento, perché nel nostro Paese non c’è industria tecnologica basata sull’innovazione”. Fra tre anni usciranno 4-5.000 ragazzi  che sanno fare solo un pezzettino di biotecnologia, e noi li stiamo illudendo: questo è un comportamento da additare, secondo me, all’opinione pubblica.

La scienza in Italia non viene collegata alla applicazione tecnologica, in contrasto con quanto sta avvenendo all’estero, dove c’è invece un’inversione di tendenza. Lo illustro con un esempio semplicissimo, quello sulla genomica. Il “Progetto genoma” ha dimostrato che non basta conoscere i geni per riuscire a modificare il mondo, va capita la dinamica del sistema, e noi di area scientifica e non solo tecnologica lo sappiamo bene. Gli Stati fanno megaprogetti di postgenomica che consistono proprio nel capire le proteine, ma nel capire soprattutto la dinamica utilizzando dei lavori interdisciplinari che facciamo con i fisici e con i matematici (senza di loro non si può fare questo tipo di lavoro e sono dieci anni che ci lavoro insieme). In Europa ci sono progetti di genomica, il sesto programma quadro si occupa di un aspetto importante, ma come funziona? Funziona solo se sono finanziati grandi progetti diretti da una grossa istituzione culturale che ha 4-500 ricercatori: quel luogo diviene punto di riferimento per il resto, altrimenti non si è competitivi in area genomica; questo significa che automaticamente noi italiani siamo fuori, siamo stati fuori dalla genomica prima, perché non abbiamo speso quello che avevamo promesso di spendere, nonostante il povero Dulbecco ci abbia provato, e saremo completamente fuori dalla postgenomica. Di conseguenza in Italia un’industria biotecnologia vera non verrà più fuori, perché se si perde questo treno, poi le cose vengono brevettate e se noi vogliamo fare un altro brevetto dobbiamo pagare tutte le royalities del brevetto precedente. Un esempio caratteristico: un gene per il β carotene è stato isolato da un italiano, è andato per brevettarlo e ha scoperto che era coperto già da 70 brevetti, fatti sugli strumenti molecolari, sui processi, etc, dopo di che è stato costretto a venderlo a Novartis dal momento che non aveva assolutamente i soldi per farsi dare il brevetto. Allora non si capisce che la ricerca di base è direttamente applicabile adesso: occorre far ricerca di base nei grossi centri o si resta tagliati fuori dalle cose nuove, ci si può solo accontentare di ristrutturare le vecchie aziende.

Ultimo dato che vi do: se si classificano le imprese ad alta, media e bassa densità di innovazione, risulta per es. che i francesi sono passati dal 20% delle imprese ad alta intensità di innovazione al 26%, mentre la Spagna sta prendendo il via, noi siamo scesi dall’8 al 7%, siamo tra i Paesi, insieme con il Portogallo e la Grecia, che siamo andati indietro e siamo usciti dal giro, siamo ormai fuori. Questa situazione è poco nota: se vogliamo cambiare le cose non basta dire che la scienza è una bella cosa, occorre affermare che la gente è presa in giro, che tutto quanto si fa adesso per la tecnologia per cui si vende l’università perché diventi produttiva, è il suicidio del Paese, è il suicidio dell’economia, per cui noi andiamo verso l’Argentina, ed è anche logico che in un Paese che non si fonda sull’innovazione, non si fonda sulla competizione per davvero, gli imprenditori di questo Paese sarebbero ostacolati da una Giustizia che funzioni veramente. Questo perché sono in qualche modo costretti a fregare, perché se non fregano non ce la fanno. Io dirigo l’unico programma, un piccolissimo programma di agrobiotecnologie, col privato: la difficoltà maggiore nel fare questo progetto è stata trovare delle imprese che accettassero di avere dei soldi a causa delle difficoltà che incontrerebbero da un punto di vista contabile. C’è un allentamento del livello di civiltà del Paese, perché la Giustizia non conta più di tanto, viene attaccata continuamente, perché questo tipo di “sviluppo produttivo” come un tentativo di mantenere in piedi un Paese produttivo, è fondato sul commercio, sulla pubblicità, e sulla ruberia insomma, e sulla sovvenzione dello Stato che ti regala quelle poche cose che ha da regalare.

Secondo me, dunque, noi dobbiamo cercare di dire tutto questo, partire dalla scienza, partire, ovviamente, dalle cose che noi sappiamo e da quello che sta succedendo all’interno dell’università e della scuola, perché questo processo è funzionale a stimolare il degrado che sta andando avanti nelle strutture economiche di questo Paese, e se va avanti tutti ci rimetteranno, anche quelli che pensano che con la laurea in biotecnologie si possa trovare il posto, proprio loro con questo sistema non lo troveranno, peccato perché sono ragazzi volenterosi. Quindi prima di tutto gli dobbiamo dire che cosa succede, io ho detto loro che non c’è posto, perché non ci sono imprese, bisogna essere franchi e dirlo.

Il difficile è far capire tutto questo alle forze politiche di tutti gli schieramenti.